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martedì 1 giugno 2010

Mainstream e genere


Come avevo anticipato, eccomi alla riflessione, più che recensione, su due titoli letti di recente. Uno, ultimissimo, che poi è quello che mi ha acceso la classica lampadina nella testa; l'altro, di qualche tempo fa, protagonista altrove di un'accesa discussione, di quei dibattiti che un tempo si dicevano "ideologici", perché dividono gli schieramenti in due posizioni nette e contrapposte, quasi aprioristiche.
Ma sto divagando.
Ecco i titoli. Il primo è 35 miglia a Birmingham, prima opera di James Braziel, fresca fresca pubblicazione di Urania e, secondo la stessa postfazione dell'ottimo curatore Giuseppe Lippi, un romanzo "ereditato" dalla storica collana di fantascienza di Mondadori perché la casa madre non sapeva dove collocarlo. Romanzo di frontiera, insomma, romanzo borderline.
Il secondo è l'ormai famoso Nessun uomo è mio fratello di Clelia Farris, vincitore della seconda edizione del Premio Odissea e pubblicato da Delos Books.
In entrambi i casi, a mio avviso, siamo al cospetto di due ottimi romanzi di mainstream, la cui unica vera pecca è il passo assai lento - un po' più decisamente monocorde l'opera di Braziel. L'altro difetto è quello di essere presentati come romanzi di sf.
Rispetto a tale definizione si invoca l'ambientazione dei due romanzi: quello di Braziel è collocato in un prossimo futuro in cui lo strato di ozono che protegge l'atmosfera è saltato e il sole arroventa una terra devastata. In Nessun uomo è mio fratello ci troviamo a nostra volta in un futuro più o meno vicino, in cui l'umanità, per motivi imperscrutabili, si divide - geneticamente? meccanicamente? arbitrariamente? Non è dato saperlo - in Vittime e Carnefici; a distinguere le due, chiamiamole Razze, un segno sulla pelle. I Carnefici possono liberamente uccidere le Vittime e si intuisce che l'omicidio è perfetto se esiste una perfetta corrispondenza, anche qui di natura mistica e non spiegata, tra Carnefice e Vittima, ma non si esclude che ogni Carnefice possa tranquillamente sbarazzarsi di ogni Vittima che trovi sulla sua strada.
Ciò che a mio avviso accomuna i due volumi è l'analisi di un rapporto controverso e distruttivo col padre. In Nessun uomo è mio fratello il protagonista Enki vive da schiavo in un rapporto padre-padrone; in 35 miglia a Birmingham il padre di Mat è un ex ballerino costretto a diventare minatore: contrariamente al mostro che vediamo impazzire nel romanzo di Clelia Farris, qui siamo al cospetto di un uomo gentile e premuroso, che riesce però a invischiare talmente il debole Mat fino a rovinargli la vita. Non che Mat sia un carattere forte, e dunque di fatto la vita se la rovina in gran parte da solo, ma la figura del padre è ampiamente al centro di questo percorso di prigionia tutta interiore.
35 miglia all'alba conta 246 pagine. 246 pagine di dialogo interiore tra un protagonista debole e il suo io, assolutamente determinato - e questa forse è la nota intrigante, i deboli che alla fine sono più forti anche di chi sulla carta li dovrebbe dominare - a non cambiare la propria vita; una vita che a questo punto ci si può chiedere se sia di fatto rovinata, o non invece proprio la vita che Mat vuole, senza responsabilità e senza impegni verso gli altri.
In Nessun uomo è mio fratello, invece, dopo la fine del rapporto col padre Enki, che è una Vittima, intraprende una fuga verso la libertà. Al lettore l'arduo compito di stabilire se si tratta di un tentativo coronato dal successo oppure no. Quel che conta è che anche qui la psicologia conduce le danze, e in modo molto sofisticato, così che alla fine, nonostante lo svolgimento di una trama, si ha la sensazione di avere assistito a un flusso di coscienza del protagonista.
Due opere sofisticate, si diceva, entrambe degne di stare su uno scaffale; l'amante del genere fantascientifico lamenta però la mancanza di azione, di adrenalina, di colpi di scena - anche se a ben guardare, Clelia Farris ce ne offre uno, tutto sommato però abbastanza scontato.
Avesse avuto l'autrice il coraggio di alternare sciabolate d'azione ai troppi colpi di pennello, forse davvero saremmo al cospetto di quello che qualcuno ha definito "il più bel romanzo di fantascienza italiana". Invece, a mio avviso, siamo di fronte a un prodotto di maquillage, come quello di Braziel, in cui l'ambientazione fantascientifica finisce per emergere come espediente e la finalità principale appare l'analisi psicologica e introspettiva di un personaggio. Il suo cammino di formazione.
Insomma, un mainstream.
E diciamolo, ci si annoia un po'. A dispetto di una scrittura scorrevole e intrigante, come nel caso di Clelia Farris, o addirittura sofisticata, quale è quella di James Braziel, che però tende troppo spesso all'involuzione e diventa fine a se stessa.
Ultimamente si dice che la fantascienza, per farsi più accattivante, deve sciacquare i panni nel fiume della bella scrittura, ammiccare insomma al mainstream.
Può darsi.
Personalmente, di fronte a tanto bello scrivere, provo nostalgia per una vecchia, sana, battaglia spaziale.

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