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lunedì 31 maggio 2010

Sangue sulla pace

Stasera volevo parlare di due romanzi di fantascienza che ho trovato molto simili tra loro, 35 miglia a Birmingham di James Braziel e Nessun uomo è mio fratello di Clelia Farris. Devo tuttavia rimandare la giustapposizione per dire la mia sui tragici eventi che hanno insaguinato la missione pacifista di Freedom Flotilla.



Francamente mi trovo in difficoltà. Primo, perché in passato sono stato tra quelli che ha difeso Israele, anche in situazioni in cui in molti le davano addosso: la sindrome da accerchiamento dello Stato ebraico e il rinascere innegabile dell'antisemitismo mi convincevano che una certa durezza nel trattare la popolazione araba non fosse del tutto sbagliata. Specie se l'interlocutore si chiamava Hamas.
Tuttavia, un conto è difendersi dal terrorismo e dagli attacchi a tradimento; un altro conto è cacciare via gente da dove ha sempre abitato sostituendola con coloni di provata fede sionista; un altro conto ancora è organizzare un'operazione da teste di cuoio e uccidere più o meno a freddo dieci persone, com'è accaduto la scorsa notte.
Nessuna sindrome da accerchiamento, nessun affronto storico, nessun Olocausto giustifica una mattanza del genere e il tentativo successivo di insabbiarla. E' ora che la comunità internazionale intervenga e mostri a Israele, come è stato mostrato con alterni successi a Iran e Corea del Nord - e mai agli USA, va detto - che non si può pensare di fare sempre e comunque ciò che si vuole.
Esiste un'etica internazionale, esistono diritti umani.
Si indaghi sull'episodio, a fondo. Non si nasconda niente. E se emergeranno responsabilità anche da parte di Freedom Flotilla - anche se al momento non vedo proprio quali - si chiariscano senza esitazioni.
Ricordando che uno Stato, per quali che siano le sue motivazioni, non può ricorrere a modalità terroristiche per difendere la propria sicurezza.
Perché altrimenti sarebbero proprio tutti uguali, quelli che si calano dagli elicotteri e apparentemente senza motivo sparano su un gruppo di pacifisti, e quelli che, spinti da un odio poi non così diverso, lanciano due jet contro altrettanti grattacieli.
E non sono tutti uguali, vero?

domenica 30 maggio 2010

Il viaggio di Anatolio






Chi l'ha detto che la fantascienza sia patrimonio esclusivo del mondo anglosassone? Ripesco, da altrove, questo gustosissimo racconto che mi venne spedito dal Perù e approfitto per salutare gli amici Daniel e Adriana.



Il Primo Peruviano nello Spazio



di Daniel Salvo

traduzione di Adriana Alarco de Zadra; adattamento di Giampietro Stocco

  • Daniel Salvo è un autore peruviano. Ci invia, tradotto in italiano, un gustoso racconto di fantscienza paradossale...

  • Anatolio Pomahuanca aveva tutte le ragioni per odiare i bianchi. Da cent' anni, loro avevano invaso e conquistato il suo mondo e ridotto i suoi antenati alla triste condizione di servi, o comunque cittadini di seconda categoria.
    Ci sono stati, sì cambiamenti storici: guerre d' indipendenza, ribellioni e rivoluzioni; i bianchi sono però rimasti sempre coloro che governavano e decidevano tutto, in Perù come nel resto del mondo.
    "Adesso viviamo in democrazia", dicevano. "Abbiamo fatto grandi progressi in materia di diritti umani ed integrazione", proclamavano.
    Quando sentiva ripetere quelle frasi false, Anatolio sorrideva storto. Non erano forse bianchi il presidente, i militari ed i sacerdoti? Qualcuno aveva visto, almeno una volta, un nativo occupare un incarico importante? Se fosse stato in condizioni di farlo, Anatolio avrebbe sputato per terra: tutti i bianchi erano merde.
    Quello che le impediva di farlo era il luogo dove si trovava: un cubo metallico, poco illuminato, con controlli e schermi. Era il ponte di commando di una nave spaziale in orbita. Come tutte le altre navi, apparteneva alle Nazioni Unite. La sua missione era di routine, la misura dei venti solari, ma in questo caso presentava un elemento nuovo: Anatolio Pomahuanca era il primo peruviano nello spazio.
    Tutto il mondo considerava un onore il suo far parte dell' equipaggio della nave. Lui, però, non si faceva illusioni. Il suo lavoro come ingegnere di mantenimento, era uguale a quello di un impiegato in una stazione di servizio. La nave, costruita con la migliore tecnologia dei bianchi, risultava un immenso meccanismo automatico destinato a condurre un programma seguendo una sequenza precisa di istruzioni.
    In realta`, tanto Anatolio quanto tutto l' equipaggio erano soltanto passeggeri. Gli strumenti per la navigazione ed i comandi avrebbero comunque svolto ogni compito automaticamente.
    Sbadiglio`. Il suo breve turno sul ponte di commando stava per finire. Aveva svolto tutti i lavori assegnati. Controllare lo schermo, verificare il misuratore, informare sulle coordinate, tutte attivita` inutili.
    Dovevano pur mantenerlo occupato, penso` con amarezza.
    Il capitano della nave, che era anche il capo de la missione, entro` nella cabina. Sorrise ossequiosamente ad Anatolio, che rispose annuendo e, svogliato, si alzo`.
    "Tutto bene, Pomahuanca?", chiese il capitano in perfetto spagnolo. Anatolio odiava i bianchi in genere, e ancora di piu` quelli che pretendevano di guadagnarsi la sua amicizia e la sua fiducia. Era sempre facile capire le loro intenzioni, smascherare il falso rispetto che nascondeva lo scherno dei bianchi o, peggio ancora, la loro commiserazione per la sua razza.
    "Tutto bene, capitano."
    "Fino a questo momento, lei si e` impegnato nel lavoro. E' una grande opportunita` per un ingegnere giovane come lei, far parte di questa missione. Molti peruviani vorrebbero occupare il suo posto."
    "Si, vero?".
    Anatolio sapeva che i bianchi erano incapaci di capire lo sdegno che significavano quelle parole. In realta`, sapeva che i bianchi lo consideravano una razza inferiore, una specie di animale che nel passato avevano sfruttato senza pietà e che adesso dovevano trattare meglio. Ma non lo avrebbero mai considerato un loro pari.
    "Ma certo, Pomahuanca. Lei ha dimostrato la capacita` di un vero uomo peruviano partecipando alla esplorazione dello spazio. Sù, sempre piu` sù, come diceva il vostro pioniere dell' aviazione, il pilota Jorge Cha`vez!"
    "Di quale capacita` mi parla, capitano? Della capacita` di lavorare in una miniera? Della capacita` di trascinare un aratro? Della capacita` di essere servo in casa di un bianco?"
    Anatolio fini` la frase senza rendersi conto che la sua voce era diventata stridula.
    Il capitano mantenne il suo sorriso. Anatolio sospiro`. Aveva già rivolto le stesse domande ad altri bianchi e le reazioni erano state diverse. Qualcuno si ritirava in silenzio, altri lanciavano insulti. Anatolio preferiva questi ultimi, perché almeno, manifestavano i loro sentimenti.
    Il capitano era uno dei peggiori: apparteneva a quelli che credevano che bianchi e nativi convivesseroi già in armonia, come se i secoli di storia avessero cancellato le ferite del passato. Nei libri e nei discorsi ufficiali non si parlava piu` d' invasione o di conquista ma di un incontro di due mondi o di due culture: sembrava incredibile che i bianchi credessero alle loro stesse menzogne.
    "Ci sono bianchi, come dice lei, che si occupano anche dei lavori di cui lei parlaa. In ogni caso, il lavoro ci rende degni."
    "Ma quei lavori li danno sempre a noi! Perché non ci lasciano essere presidenti, ministri od ambasciatori?"
    "Tutto a suo tempo, Pomahuanca. Mi dispiace che le cose siano state diverse per noi due, che dobbiamo essere schiavi del nostro passato."
    "Ma di quale schiavitù parla? Essere proprietari, impresari o militari e` schiavitù? Condurre macchine di lusso e`schiavitù? Apparire in televisione è schiavitù? Non è cambiato nulla, capitano, noi saremo sempre i conquistati e voi i conquistatori."
    "Allora come spiega la sua presenza qui, Pomahuanca? Come spiega il fatto che sua educazione sia stata interamente gratuita e che abbia potuto fruire dei piu` alti standard nelle migliori universita`? E il suo servizio sanitario? E perché non parliamo di questa missione? Secondo la sua logica soltanto i bianchi, come le piace chiamarci, dovrebbero farne parte, no?"
    Anatolio Pomahuanca tremava di odio e di rabbia. Chiuse i pugni, e lasciò che i suoi pensieri uscissero liberamente dalla bocca: potevano fargli quello che volevano, castigarlo o degradarlo. Almeno avrebbe avuto la soddisfazione di dire al capitano quello che veramente pensava.
    "Per voi io sono soltanto un ornamento! Un simbolo! Volete solo annunciare che avete portato un peruviano nello spazio! Cosi`, tutti crederanno alla balla della convivenza armoniosa!"
    Dalla faccia del capitano scomparve il sorriso. Gli occhi diventarono minuscole righe parallele, senza colore e la bocca gli si chiuse in una linea stretta. Ripiego` le sue appendici uditive e si diresse verso la sala di commando. La sua pelle squamosa mancava completamente di colore, eccetto per il pennacchio blu che quelli della sua specie portavano sulla testa. Per questo, i pochi terrestri che erano sopravissuti alle guerre di conquista degli invasori dello spazio li chiamavano "bianchi".
    "Lei si puo` ritirare, Pomahuanca. Sia pronto per il prossimo turno", disse il capitano, congedandolo con un gesto delle sue mani membranose.

    sabato 29 maggio 2010

    Fantaitalia s'è desta




    Esce in questi giorni per i tipi di Bietti un'interessante antologia. Ambigue Utopie, questo è il titolo, 19 racconti di fantascienza e altro. La prima notazione è una curiosità. I racconti dovevano infatti essere almeno venti, perché dal mazzo manca un mio contributo. Quando infatti l'ottimo Gian Filippo Pizzo mi contattò a suo tempo, e prima ancora che Bietti si interessasse all'operazione, io accettai l'invito. Un invito che molto tempo dopo - laboriosa infatti fu la gestazione dell'opera - dovetti respingere, perché l'idea dietro il mio racconto - e questa è l'altra notizia, o quantomeno l'altra curiosità, era piaciuta a un altro editore.
    Poiché l'antologia della fantascienza utopistica e politica sembrava languire, decisi di ritirare il mio racconto che però, sotto gli auspici creativi di Gianfranco Viviani, divenne il romanzo Dalle mie ceneri, primo titolo italiano pubblicato dalla collana Odissea di Delos Books.
    La mia prima reazione alla presentazione di Ambigue Utopie è dunque di grande tenerezza, un po' diviso tra l'invidia di chi poteva esserci, il piacere di chi si prepara a leggere qualcosa che sa già sarà molto interessante, e anche qualcosina in più che però non anticipo ancora, perché altrimenti questo blog si intitolerebbe "Spoiler" e non "Ucronicamente".
    Sorvolo sulle critiche lette da qualche parte secondo le quali Ambigue Utopie sarebbe una risposta tardiva alla complementare e precedente Fantafascismo - ci interessa davvero sapere chi ha tirato il primo colpo di fucile in questa guerra tra scrittori del fantastico? - e mi limito a evidenziare un aspetto che forse pochi considerano: in questi tempi in cui la fantascienza sembrava essere stata scacciata dall'editoria dal thriller o dal fantasy, ecco che temi spiccatamente a essa legati ricompaiono in primo piano. Editori importanti cominciano a interessarsi di nuovo di distopie, utopie, e science fiction. Di più: la narrativa italiana propone di nuovo titoli spiccatamente fantascientifici - un esempio, Bambini Bonsai di Paolo Zanotti, Ponte alle Grazie - e l'ucronia conquista nuovi e interessanti autori come Enrico Brizzi - La Nostra Guerra e L'inaspettata piega degli eventi, Baldini, Castoldi e Dalai.
    Un segno che qualcosa si muove. O che forse nell'immobilità apparentemente assoluta della società e della politica italiane il wishful thinking si ritrasferisce in letteratura?
    In genere è un buon segno.

    martedì 25 maggio 2010

    L'unione fa la forza?

    Anni fa, un mio carissimo amico, al mio ostentato amore per i Jefferson Airplane, obiettava che sì, facevano una bella musica, ma... "sai che c'è? I Jefferson so' ... tanti".
    Insomma, una minestra troppo eterogenea per convincere fino in fondo.
    Una frase che mi torna in mente in questi giorni, in cui vedo la barca dell'italica democrazia beccheggiare e ondeggiare paurosamente sotto i colpi dell'auotoritarismo mediatico cui è soggetta ormai da quindici anni buoni, anche se gli ultimi due finiscono per essere stati quelli delle falle decisive.
    Perché mi tornano in mente i Jefferson Airplane?
    Bè, in effetti il mio amico aveva ragione.
    Come si faceva a mettere d'accordo la psichedelia spinta di Paul Kantner, Grace Slick e Marty Balin con il blues-rock di Jorma Kaukonen e Jack Casady?
    I sogni spaziali con la ricerca musicale?
    Il rock con le melodie west-coast?
    Eppure il prodotto finale era un sogno: ricordo capolavori come Lather o Crown of Creation. Gemme rare scolpite nel pentagramma come la Triad cantata da Grace.
    L'aeroplanino Jefferson, sia pure nella sua confusionarietà ci spinse verso il futuro.
    Quando l'assalto al cielo fu completato, i vari protagonisti decisero di cercare ciascuno una sua strada, e così il feroce biplano degli anni '60 e '70 divenne, con alterni successi, addirittura astronave.
    La sezione ritmico-artistica, Casady e Kaukonen, invece, si ancorò solidamente al blues come Hot Tuna.
    Ma l'assalto al cielo l'avevano compiuto tutti insieme.
    Oggi ci si chiede se il fronte di chi vuole che la nave-Italia torni a solcare acque democratiche sia composto da tutti quelli che ci credono o solo da alcuni, se la sinistra debba ricominciare da se stessa o farsi solo parte di questa battaglia.
    Se nella mia trincea qualcuno con un'uniforme diversa spara contro il mio stesso nemico, per me è un amico.
    Un alleato.
    L'aeroplanino deve pur decollare. E non importa se siamo "tanti".
    Anzi, a questo punto, più siamo e meglio è...

    Lost and gone

    Se c'è una cosa che ricordo come fosse ieri è la sera della prima puntata sulla RAI di Lost. Faceva ancora freddo, c'era ancora mia suocera e visto che non ci capiva un belino, parlò a voce stentorea per tutto il tempo, costringendomi a barricarmi in un'altra stanza per seguire quello che tutti avevano presentato come un evento.
    Ed evento fu, almeno per me, se è vero che in tutte le sue successive incarnazioni, comprese quelle meno riuscite, dalla prima all'ultima stagione, Lost è riuscito a inchiodarmi allo schermo. Jack, Sawyer, Kate, Ben, Sayid, Hurley, Locke, Jin, Sun e tutti gli altri, erano diventati parte del mio immaginario, vecchi amici di cui avevo bisogno di sapere ogni vicenda e, soprattutto, come sarebbe andata a finire.
    Un po' come l'inflazione programmata ho mantenuto il mio livello d'incredulità a livelli bassi, così che ogni successivo, improbabile colpo di scena mi colpisse come una frustata. Ho sopportato mostri di fumo che scomparivano e ricomparivano, isole migranti, custodi immortali, bombe atomiche e gente che vi sopravvive, ho aspettato fiducioso la fine per trovare un senso.
    E non ci sono riuscito.
    Salvo pensare, come avevo sospettato già all'inizio, che tutti fossero morti da subito nello schianto del volo Oceanic 815 e l'Isola con la I maiuscola fosse una qualche metafora dell'aldilà.
    Un po' banale, ma si sa, i finali in genere deludono. Le costruzioni eccessivamente complesse tendono a scricchiolare. Questa, però, mi si è disintegrata fra le dita mentre - attenzione, spoiler! - il papà redivivo (o redimorto?) di Jack apre la porta della chiesa dove tutti i protagonisti si sono riuniti nel Braccobaldo Show e scopre, guarda un po' una luce ultraterrena che sfuma nell'occhio del Jack alternativo che, sull'Isola, si richiude, come si era aperto all'inizio della serie.
    Un po' pochino dopo tanto raccontare. Dopo tanto disorientare. Dopo tanto lasciar sperare.
    E mi si apre un vuoto. Un vuoto che mi ricorda mia suocera e la sua voce e tutto ciò che ho vissuto in questi cinque anni. Tutto ciò che ho, quello che si è perduto, andato per sempre.
    La malinconia mi assale, ma poi sorrido e mi dico: caro, carissimo Lost, m'ha proprio rotto er ca...